È, per definizione, uno dei conflitti più complessi del mondo contemporaneo. Difficile da comprendere, complicato nelle sue dinamiche storiche e mai risolto per davvero. Ha coinvolto tutti gli attori internazionali possibili nel tempo, ma la guerra arabo israeliana, declinata in forme diverse tra loro, ha origini lontane e non ha mai trovato una soluzione effettiva. Nonostante ci abbiano provato in molti, per interessi economici o coinvolgimenti geopolitici.
L’ultimo, almeno ufficialmente, è stato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che nel gennaio 2020 ha reso pubblico il piano “Peace to prosperity“, una proposta di pace in un documento di 181 pagine che si pone l’obiettivo di risolvere una guerra iniziata, di fatto, nei primi anni del Novecento e che non ha mai accennato a spegnersi (nonostante qualche isolato momento di tregua) e che vede contrapporsi Israele e Palestina.
Il conflitto tra israeliani e palestinesi è entrato in un vortice di violenze dal quale sembra impossibile uscire. Il dato che colpisce maggiormente è l’impossibilità di risolvere una situazione conflittuale che ormai, da più di mezzo secolo, semina odio religioso e violenza, non solo nella regione mediorientale, ma nel mondo intero. La questione mediorientale infatti è un forte fattore destabilizzante all’interno dei rapporti internazionali, ma tutti i tentativi finora fatti tra israeliani e palestinesi per arrivare ad un accordo duraturo sono crollati, colpiti all’interno dagli estremismi religiosi di entrambe le parti, e all’esterno da una sostanziale crisi decisionale e politica della comunità internazionale, riunita nell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
L’inizio della controversia arabo-israeliana può essere fatta risalire alla fine della Prima Guerra Mondiale. Le zone oggi contese facevano parte dell’Impero ottomano, ma, in seguito alla sua sconfitta, tutti i Paesi arabi (Egitto, Arabia e zona della Mezzaluna fertile) cessarono di appartenere alla Turchia. La Società delle Nazioni (SdN) attraverso il sistema dei mandati incaricò la Gran Bretagna e la Francia della creazione e dell’amministrazione di nuovi Stati nei territori appartenuti all’Impero ottomano, tenendo conto delle differenti culture e religioni che lì risiedevano, ma ignorando così il diritto all’autodeterminazione dei popoli espresso da Wilson nei suoi “14 Punti”.
Un documento molto importante nell’affidamento alla Gran Bretagna del mandato sulla Palestina fu la dichiarazione del 1917 del ministro degli esteri inglese, Lord Arthur J. Balfour, detta Dichiarazione di Balfour. In essa vi si annunciava la disponibilità alla creazione in Palestina di un “focolare nazionale per il popolo ebraico”, che non avrebbe però leso i diritti delle popolazioni non ebraiche.
Le cause del conflitto
Durante il primo mandato inglese in Palestina (1920-1922), poi rinnovato periodicamente fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale), fu attuata una stabile presenza militare per il controllo strategico dei traffici commerciali del Canale di Suez e, con l’adozione della precedente legislazione ottomana, si accentuarono i contrasti tra i notabili musulmani e la popolazione rurale palestinese.
Nel frattempo alimentato dal sionismo, una tendenza politica e ideologica il cui obiettivo principale era la creazione di uno Stato ebraico, un consistente flusso di immigrati ebrei cominciò ad arrivare nelle zone dei luoghi santi e a stabilirvisi acquistando terre, spinti dal mito del ritorno alle origini.
L’ascesa del sionismo ricompattò il fronte sociale arabo che si avviava verso un nazionalismo in funzione antiebraica e anticolonialista, guidato dal Partito dell’indipendenza araba, fondato nel 1932. La situazione esplose durante la Rivolta araba in Palestina (1936-1939), anni in cui si scatenò l’odio nazionalistico e religioso degli arabi nei confronti degli inglesi e degli ebrei, ma che non espresse un indirizzo univoco, anzi si frammentò tra le diverse fazioni.
Con la Seconda Guerra Mondiale, dopo la scoperta del tragico destino di sei milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti, si impose con più forza l’idea della costituzione di uno Stato ebraico.
La nascita dello Stato Israeliano
Nel novembre del ’47, con la risoluzione n.181, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite accettò il piano di spartizione della Palestina presentato da una apposita commissione: sarebbero sorti uno affianco all’altro due Stati indipendenti, uno arabo e uno ebraico, con un regime internazionale speciale per la città di Gerusalemme, ponendo così fine al mandato inglese sulla Palestina.
La tragedia della Shoah aveva avuto il suo peso nell’accelerazione di questo processo, ma con l’instaurarsi della guerra fredda si delineavano anche gli interessi, i quali ruotavano attorno al controllo dei traffici commerciali e petroliferi che transitavano per il Canale di Suez, delle due superpotenze: gli Stati Uniti, schierandosi con Israele intendevano conquistare un prezioso alleato in una regione strategica del globo, mentre l’Unione Sovietica si avvicinò ai Paesi arabi, soprattutto l’Egitto di Nasser, cercando di sfruttare la loro avversione ad Israele per i propri interessi in quelle zone.
Mentre le due principali identità di Palestina, quella araba e quella ebraica, si consolidavano sul territorio, nell’estate del 1914, il governo turco (che controllava, di fatto, il Paese) impose delle misure per contenere la migrazione ebraica dall’Europa, perché la popolazione araba dimostrava una certa insofferenza verso questo fenomeno. La Palestina, infatti, apparteneva all’impero Ottomano e la regione, all’epoca, risultava divisa in due distretti amministrativi: Gerusalemme e Beirut. L’arrivo degli ebrei, paradossalmente, contribuì (e coincise) con la rinascita della cultura e del sentimento nazionale arabo. E proprio per questo motivo, il generale turco Ahmed Djemal Pasha vietò a entrambe le comunità slanci nazionalistici. E lo fece con una certa forza, visto che diversi leader arabi vennero impiccati, mentre numerosi ebrei vennero espulsi dal Paese.
Del ritorno del popolo ebraico in Palestina (dopo la diaspora storica tra il 70 e il 135 dopo Cristo) si parlò ufficialmente a metà Ottocento circa, quando i primi ebrei tentarono un rientro nella cosiddetta Terra promessa. I fattori che li spinsero a questa iniziativa sono da ricondurre al clima di antisemitismo, al susseguirsi dei pogrom (parola di origine russa che indica forme di sommosse popolari contro minoranze religiose) e alla conseguente emigrazione di ebrei più poveri che dalla Russia si spostava verso l’Europa centro-orientale e occidentale. Tra il 1882 e il 1903, furono circa 25mila quelli che fecero ritorno in Palestina. Quel tipo di fenomeno prese il nome di aliyah (la prima di una serie), parola che significa “salita”, “ascesa” verso un luogo che, per definizione, è ritenuto d’appartenenza. Per la storia dello Stato d’Israele, quel primo avvenimento segnò l’origine di tutto.